Introduzione al III volume del Liber Amicorum

Giuseppe Ignesti

Emilio Gandolfo era un pastore molto amato ed un uomo di profonda cultura. "Una persona molto fine, dolcissima, sempre attenta alle necessità altrui, e di uno spessore culturale non comune". "Mite, dolce, accogliente nei confronti di chiunque, sempre disponibile al dialogo", "estraneo a qualsiasi banalità".

Colto e curiosissimo studioso della Bibbia e dei Padri della Chiesa, eccellente predicatore, autore di numerosi libri di patristica e traduttore, Emilio inviava ai suoi numerosi amici due volte l'anno, a Natale ed a Pasqua, un fascicolo di poche pagine, stampato con gusto fine e povero, che non rinunciava mai in copertina a un'immagine d'arte (molto spesso un particolare di una scultura romanica, soprattutto della Borgogna). Questi fascicoli, normalmente di sedici pagine, contenevano una "lettera agli amici", ed alcuni passi tratti dalla Sacra Scrittura, dai Padri della Chiesa e da opere di autori classici e contemporanei. Hanno raggiunto per quasi quarant'anni, dal 1961, migliaia d'indirizzi, scritti invariabilmente a mano da don Emilio.

Le lettere inviate agli amici dal 1961 al 1992, fino cioè alla celebrazione del 50° anniversario della sua ordinazione sacerdotale, sono raccolte in un libro ormai esaurito (Ad Deum qui laetificat iuventutem meam. Liber Amicorum, Roma 1992), che presto sarà ripubblicato, completo anche di tutti i brani, integralmente riprodotti, e di tutte le illustrazioni che le accompagnavano, in due volumi.

Questo volume, invece, che ora qui presentiamo, raccoglie integralmente i libretti spediti da don Emilio a partire dalla Pasqua-Pentecoste del 1992 fino al Natale del 1999, cioè fino alla sua morte, con le "lettere agli amici", le letture proposte e le immagini di copertina, offrendo un "percorso" di straordinaria spiritualità.

E' una raccolta di riflessioni e di testi di grande valore che va letta e riletta, quasi un breviario per laici, credenti o meno, alla "ricerca" di qualcosa: in ogni momento della vita, anche nelle dimensioni più piccole, più insignificanti, più povere, c'è un'immagine di Dio. Emilio non ci chiedeva chi eravamo. Aveva grande curiosità per le vicende umane, per le scelte diverse che ciascuno di noi faceva, per ogni evento che dilati gli orizzonti dell'uomo. Educò i suoi amici a questo modo di essere. Ha amato i suoi amici di un amore umanissimo, ma senza mai sovrapporsi, rispettando la personalità di tutti, anche i loro difetti, così com'erano. Un'attenzione a ciascuno, fatta di premure, di rispetto fino allo scrupolo.

Una delle massime a lui più care è la parola del Signore tramandata dall'apocrifo Vangelo di Tommaso: "Colui che cerca non smetta di cercare fin quando non trovi. Quando troverà si stupirà. Quando si sarà stupito si turberà e dominerà su tutto". Il turbamento davanti al mistero di Dio! E' questa la Presenza che unisce tutto. Spesso parla del pastore del presepio di Bonassola, rapito - ravì - a braccia aperte davanti alla culla di Gesù Bambino, che non porta in dono nulla, ma porta la cosa più bella, lo stupore dell'infanzia. I semi del Verbo, amava ripetere, sono presenti in ogni cultura, in ogni religione, in ogni esperienza umana e vanno raccolti con "riverenza e gioia".

Lettore intelligente e instancabile, per comporre i suoi numerosi libri, Emilio usava un'infinità di fonti, che non si limitarono a nutrirlo di idee e di conoscenze per essere poi rielaborate ed espresse con le sue parole e la sua sintassi, ma che furono copiate così come si incontrano, prevalentemente nei Padri.

Emilio legge e traduce il Vangelo e i suoi Padri preferiti, ne trascrive qua e là su minuti foglietti i brani che lo toccano particolarmente e che poi passerà agli amici; soprattutto conversa con questi antichi personaggi. Certo nulla di erudito; solo quello che per lui è vivo, che lo interessa.

Chi lo conosce sa bene come nei libri solo pochissime pagine sono veramente "originali". Il suo lavoro consiste in una selezione di queste fonti e nella scelta di alcuni brani. Si forma, come in molti autori antichi e medievali, una "catena patristica" che intreccia le citazioni del Vangelo e dei Padri l'una con l'altra "senza soluzione di continuità".

I testi dei suoi libri, le tante omelie, le lettere di Natale e di Pasqua sono destinati a far riconoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio (Disce cor Dei in verbis Dei) offrendo materiali che operano una sintesi straordinaria ed originalissima di riflessioni evangeliche (una vera e propria teologia) da offrire ai suoi amici, con un linguaggio comprensibile ed essenziale. Utilizza immagini e riferimenti simbolici che richiamano le esperienze familiari ai suoi lettori.

Si considera "condiscepolo" con i suoi tanti amici, spesso non cristiani e non credenti. Certo stupiva, viaggiando con lui, scoprire quanto fosse conosciuto. Ricorda di esser cresciuto alla scuola dell'unico Maestro: con i giovani del Virgilio, con i parrocchiani liguri, pellegrino in Terrasanta sulle orme di San Paolo (spesso accompagnava gruppi di fedeli alla scoperta degli itinerari spirituali), "ho gustato la gioia di essere condiscepolo alla scuola di Cristo".

Lo interessava quello che i giovani pensano di sé, del mondo, del futuro. Lo ascoltavano, e lo amavano, anche gli studenti atei, comunisti, anarchici, agnostici. Don Emilio non era un prete condiscendente, non cercava tra i giovani un facile consenso come molti tra i religiosi "progressisti" della sua generazione; non metteva tra parentesi la fede, il ruolo, l'appartenenza alla Chiesa. Ma riusciva a trovare con tutti il terreno per dialogare, una sponda su cui costruire un rapporto sempre diverso e personalizzato: perché il suo interesse era l'umanità.

Offriva il proprio terreno d'incontro, quello religioso, ma era pronto a restare ancorato a quello mondano, se così voleva il suo interlocutore frequente od occasionale. E allora era la storia, la storia dell'umanità e delle sue civiltà, dei suoi progressi e delle sue disgrazie e tragedie a permettere quella sintonia e quella solidarietà che oltrepassava, così in anticipo per quei tempi, steccati ideologici e politici.

Questa raccolta inizia proprio dall'ultima lettera, la "lettera di Pasqua e di Pentecoste" 1992, che chiudeva il precedente Liber Amicorum (Ad Deum qui laetificat iuventutem meam) del 1992. Perché ripubblichiamo questo testo? Per due motivi sostanziali.

In primo luogo, perché questa, negli ultimi anni, è l'unica lettera intestata così. Inizialmente Emilio scriveva tre lettere l'anno: in occasione del Natale, della Pasqua e della Pentecoste. Poi, per ragioni anche economiche, la lettera di Pentecoste è stata assorbita da quella di Pasqua. Nel 1992, però, cadeva l'anniversario della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta appunto nel giorno di Pentecoste. Un "segno", e la lettera di quell'anno richiama quel giorno e quella festa centrale nella liturgia cristiana e nell'esperienza di Emilio.

In secondo luogo, perché si tratta di una lettera particolare, autobiografica, in cui egli fa la "sintesi" della sua esperienza cinquantennale di vita pastorale fino ad allora da lui vissuta e propone i temi e gli argomenti che alla sua riflessione sono apparsi come fondamentali e che rimarranno quindi una costante negli ultimi dieci anni della sua vita.

Naturalmente, l'ultima lettera di questo libro è quella da Emilio scritta per il Natale del 1999, lettera che stava arrivando agli amici proprio nei giorni della sua morte violenta.

Va ricordato che nel suo computer abbiamo trovato uno scritto sulla "Carne gloriosa e santa", una serie di riflessioni basate sulla lettura di Dante, sul tema della resurrezione non solo dell'anima, ma della stessa carne, di tutto il corpo. Conoscevamo la sua ricerca su questi temi dalle sue omelie di questi ultimi tempi e da alcuni suoi appunti più brevi. Abbiamo stampato questo testo, anche se incompleto, in un libretto mandato agli amici per la Pasqua del 2000. Ci è stato detto che abbiamo fatto molto bene a far conoscere questo scritto, apprezzato e "goduto" da tutti, in un momento in cui anche tra i credenti va pericolosamente diffondendosi, in evidente e radicale contrasto con il nucleo stesso del messaggio cristiano, quella che a volte assume l’aspetto di una simpatia, a volte persino di una vera e propria credenza nella reincarnazione. E' stato quanto mai opportuno riaffermare in questa nostra epoca storica, attraverso lo scritto di Emilio, un punto centrale della nostra fede, la resurrezione dei corpi. Come non ricordare il "disio de' corpi morti" che le anime sante esprimono nel canto XIV del Paradiso di Dante?.

Emilio, lui che era così schivo, ci dice qualcosa di straordinariamente attuale riguardo al corpo: "non è sufficiente l'immortalità dell'anima". Finché non riavremo il corpo non saremo noi, neanche in cielo. Confida, con il Salmo 16, che "anche la mia carne riposa nella speranza".

Nel libretto per la Pasqua e la Pentecoste del 1992 emergono, dunque, come abbiamo detto, tutti gli elementi che hanno accompagnato la riflessione e la vita di Emilio e che negli ultimi anni sono tornati ad emergere in modo sempre più forte, quasi fossero un suo vero e proprio testamento spirituale.

Ovviamente Emilio era uomo del suo tempo e nei libretti sono quindi presenti anche le tracce degli eventi esterni, le quali però vanno ricercate con particolare attenzione. Questo perché egli aveva quasi pudore di metterli in evidenza, come se far riferimento agli eventi del tempo fosse una diminuzione rispetto al centro dei suoi interessi, rispetto cioè a quella riflessione sul Vangelo e sui Padri della Chiesa che lui conduceva da molti anni e che riversava poi nei tanti articoli che scriveva per giornali e riviste, nei libri e nei libretti stessi.

Gli avvenimenti del suo tempo erano, in un certo modo, sullo sfondo, spesso solo fugacemente accennati, e in modo indiretto, in cui egli collocava la sua riflessione: come era solito fare anche nelle omelie, soprattutto quando celebrava la messa a Roma. Faceva certamente riferimenti a ciò che accadeva nel mondo ed in Italia. Ma erano solo piccoli accenni, sui quali non insisteva più di tanto; e l'accenno gli serviva a ritornare a quel che più gli premeva. Era il prete annunciatore del "messaggio", del Vangelo. Non era, né voleva essere un politologo, un sociologo, un politico o un sindacalista.

Da questo punto di vista, ogni suo scritto si presenta alla nostra riflessione quasi sciolto dal legame con gli eventi della vita, con i fatti del tempo, dai quali pure Emilio muoveva e ai quali spesso comunque accennava: nel senso che la sua meditazione sul messaggio evangelico si esprimeva in forme così elementari, così semplici da apparire al lettore come nella letteratura appare un testo classico, nel senso etimologico del termine, a motivo della sua essenzialità espressiva e concettuale. E’ questa la ragione di fondo per la quale i libretti di don Emilio, così come la parola di Dio, la lettera che Dio perennemente scrive agli uomini, e che egli commentava, vanno letti e riletti. Vanno, com’egli ci insegnava, seguendo l’indicazione di Agostino, "ruminati". Ogni lettura è sempre nuova. Vanno "pensati". Ogni lettura dà occasione a riflessioni sempre nuove. "Chi ingoia facendo sparire ciò che divora dimentica ciò che ascolta. Chi invece non dimentica, pensa, e pensando rumina, e ruminando gusta" (Agostino, Enarr. in Ps 36,3,5). Le stesse parole, rileggendo si reinterpretano in modo diverso. Questo è il classico. Non si aggiunge e non si toglie nulla, ma rileggendo si trova una freschezza sempre attuale e nuova. Lui credeva al Vangelo "sine glossa", senza incrostazioni né sofisticazioni. Era questa la fonte a cui attingere, ed a cui cercava di farci abbeverare.

Anche nel linguaggio egli è dunque un classico. Scriveva benissimo, ma scriveva di getto; era di grande qualità, ma essenziale, semplice. Il suo scrivere era finalizzato unicamente a dover comunicare qualcosa. Non c'era la compiacenza dell'intellettuale, dell'accademico. Si potrebbe ripetere per lui quello che i contemporanei dicevano di Filippo Neri: "Homo qui loquitur in semplicitate evangeli".

Nella lettera di Pasqua e Pentecoste del 1992 ci sono tutti gli elementi ricorrenti di Emilio. Ricorda don Primo Mazzolari, che gli scrive, in occasione dell'ordinazione sacerdotale, cose che rimarranno fondamentali in tutta la vita ed in tutti gli scritti di Emilio: "Riguardo alla nostra inguaribile povertà non accorartene troppo". Emilio intendeva la povertà anche in senso crudamente materiale. Lascerà scritto nel suo "diario dell'anima" che da bambino era così povero che si vergognava della sua povertà. Ma ha sempre rifuggito ogni occasione, le mille occasioni offertegli dalla vita, perché la sua povertà materiale si risolvesse in qualche modo. Ma lui aveva presente solo le cose essenziali e non ha usato queste mille occasioni. Quanto riusciva a guadagnare, ed a volte non erano piccole somme, lo ha distribuito discretamente, ma a piene mani, alle sue parrocchie e ai poveri in Terra Santa. E poi per realizzare questi libretti (ogni volta circa 1500 copie), stampa e spedizione avvenivano a spese integralmente sue. Non aveva mai voluto accettare nessun aiuto. Era il suo regalo per gli amici.

"Riguardo alla nostra inguaribile povertà non accorartene troppo". E' il motivo presente in tutti i libretti, ed è una frase che richiama con forza San Paolo: "Mi basta la tua grazia. La mia potenza, infatti, si manifesta nella debolezza". Povertà inguaribile, perché connaturata alla condizione umana. Preoccupati, ma non troppo, non te ne fare un problema più di tanto. Non esiste una vita umana che, per quanto possa sembrare insignificante, lo sia del tutto. Nella quale non si specchi il volere di Dio. Portiamo un messaggio che è di gran lunga superiore alle risorse ed alle possibilità della nostra stessa vita terrena. Il tema della debolezza e della povertà è da lui coniugato in tutti i modi, ed è riassunto nell'immagine del vaso di argilla che porta un grande tesoro.

Ricorda gli amici, i tre amici con cui ha trascorso ore indimenticabili: Paolo, Agostino e Gregorio. Amava soprattutto Gregorio Magno, il papa monaco e pastore, ma conosceva bene tutta la patristica, di cui curò un'antologia ("Lettera di Dio agli uomini", Piemme) per mostrarne la continuità con la Scrittura; così come amava la tradizione cristiana, il suo Dante, la letteratura classica e quella contemporanea.

E ricorda i suoi maestri. Sono tre anch'essi: padre Stanislay Lyonnet, lo studioso che lo ha avvicinato più di tutti alla comprensione di san Paolo; il cardinale Michele Pellegrino (per lui, padre Pellegrino), che gli trasmise l'amore per lo studio dei Padri della Chiesa, tra cui Gregorio Magno ("mi insegnò a nutrirmi del midollo dei Padri"); e padre Bellarmino Bagatti, il santo archeologo di Gerusalemme, che per lui rappresentava e si identificava con la stessa Terra Santa ("il gusto di ricercare fra le pietre… la roccia che è Cristo, quella roccia che nel deserto accompagnava e dissetava il popolo dell'Antica Alleanza"). La Terra Santa è per Emilio un riferimento costante, al punto che egli non perdeva occasione per accompagnare un gruppo di pellegrini in quei luoghi, anche se essa materialmente localizzata in Medio Oriente si espandeva quasi e si trasfigurava e diventava ogni luogo. Quella dei viaggi è sempre stata una sua passione. In Terra Santa, o in Turchia, o in Siria, o in Grecia, sempre sulle orme di qualcuno, alla ricerca di quelle radici - così le chiama lui - storiche, geografiche, spirituali, indispensabili per riscoprire la nostra identità.

Bagatti è la strada della libertà (lo conobbe attraverso padre Emmanuele Testa). E' quello che gli ha fatto capire fino in fondo il significato della "ricerca delle radici", la parola di Dio che si incarna in una storia determinata, in un momento e in un luogo precisi. E' colui che gli insegna a leggere il passato con una dimensione storica per ricostruire non quello che nei primi secoli "il cristiano doveva sapere, ma ciò che avvenne" nei primi secoli. Gli insegna a non travisare le parole dei Padri, ben sapendo come la mentalità odierna sia differente da quella antica. E in questo ritrova Gregorio: "ab historia in mysterium".

Ha avuto certamente debiti culturali anche con tanti altri. E lo sa bene. Ad esempio con Ernesto Balducci, Pietro Rossano, padre Benedetto Calati, padre Emmanuele Testa (a quest’ultimo, sorridendo, ricordava: "tu studiavi, io guardavo fuori dalla finestra"). Ma i maestri sono i tre citati: non lo hanno mai deluso. Da loro, diceva, "Ho imparato a bere alla Sorgente".

Ed a questo punto si sviluppa un tema teologico che Emilio insegue fino in fondo, il tema della povertà dell'uomo nel rapporto con Dio. In primo luogo, vede nel non credente, nel lontano il paradigma di un rapporto verso la "povertà", in tutti i suoi aspetti, il vaso d'argilla che serve a custodire un grande tesoro, la condizione della vita umana, Cristo stesso che si fa povero, ma soprattutto la povertà (Emilio ricorda che è anche ricchezza) nel rapporto tra uomo e Dio. E' la nostra povertà che ci fa ricchi e ci consente di avere accesso al messaggio di Dio.

Il "povero" è paradigma del non credente, del non più credente. Emilio non ha mai convertito nessuno e ha visto, anzi, molte delle sue "anime" abbandonare la fede. Ma a tutti ha lasciato qualcosa: generosità, allegria, quella strana e insolita simpatia. Emilio diceva: "io all'ateo assoluto non ci credo". Su questo tema, nel libretto di Pasqua 1992, cita Sartre, cita l'autobiografia di Bobbio. Il tema costante, ricorrente si riferisce a chi è "lontano". Ma Emilio affronta tutto alle radici ed allora il tema di chi è lontano riguarda noi stessi. Tutti sono nella condizione della ricerca, dal credente più convinto, fino a chi dice di se stesso di non essere credente. Dice: "Ho imparato a bere alla sorgente, ma anche a questi umili ruscelli lungo la via. Lungo questa via di cinquant'anni ho incontrato anime assetate alle quali ho chiesto da bere… Proprio queste anime assetate e stanche hanno acceso in me un desiderio più vivo della Sorgente".

Il libretto del 1992 è autobiografico. Quasi una lettera scritta per chiudere una vita. Fa riferimento alle sue esperienze di vita, ai giovani del Liceo Virgilio, alle parrocchie della sua Liguria, ai pellegrini in Terra Santa, alla "ricerca delle radici", alle dimensioni pellegrinanti della vita e della Chiesa, legata alla tenda del deserto e non ai templi sontuosi, alla Chiesa domestica ("la chiesa prima di essere universale è domestica"), al granellino di senape, al piccolo gregge, al vaso di argilla che porta il tesoro, alla speranza dei poveri. Di chi è materialmente povero, e con questi aveva un rapporto privilegiato. Ma intendeva soprattutto la povertà dello spirito.

E qui Emilio affronta il tema della provvisorietà, della tenda nel deserto, del popolo in cammino, dell'ospitalità, dell'apertura, dell'accoglienza. Diceva: "Il deserto, che anche su noi esercita un fascino potente, non è evasione dalla città, ché anzi tende a renderci spazi di libertà e di comunione. È qui, nella città, che il cristiano è chiamato a realizzare la sua vocazione nella fedeltà a Dio e alla terra degli uomini. Se dall'aridità e dalla solitudine nascerà una più ardente sete di Dio e un più sincero bisogno di comunione fraterna, anche il deserto della città è destinato a fiorire." Ed aggiungeva: "Il deserto è il luogo ideale della Parola, perché nel deserto l'uomo si trova solo davanti a Dio, spoglio di presunzione, come un bambino; deserto vuol dire, atteggiamento di ascolto". "Io amo il silenzio, ma amo anche la parola che nasce dal silenzio. Se parlo non è per attirare l'attenzione su di me, ma per invitare a rendere grazie con me al Signore", aveva scritto nel 1992. La dimensione pellegrinante è legata alla dimensione del deserto. E' lì che sperimenta la sete ardente di Dio com'è evidente nella pagina di Turoldo, quella sul "mio prefazio a Pasqua".

Sente la necessità di un ringiovanire la Chiesa. Riprende, come tante volte gli è capitato di fare, temi conciliari. Parla commosso di papa Giovanni. "In maniera singolarissima egli ci ha riportato al Vangelo e ce ne ha rivelato l'originalità, la semplicità, la profondità, l'attualità e ci ha aiutato a gustarlo come si gusta il pane di casa fatto da nostra madre, come si respira a pieni polmoni l'aria del paese in cui siamo nati".

La Chiesa del Concilio era la sua Chiesa, la Chiesa del dialogo, la Chiesa in ascolto della parola di Dio, ma anche in ascolto degli uomini ai quali è inviata. La Chiesa i cui abitanti sono gli abitanti di tutto l'ecumène, che ha ritrovato la sua vocazione profetica, che sa rendere storicamente visibile quel soffio dello Spirito che è il suo vero segreto, pronta a buttar via le ricchezze che la appesantiscono e le impediscono di camminare, capace di raccogliere "con reverenza e gioia" i semi del Verbo presenti in ogni cultura, in ogni religione, in ogni esperienza umana.

Ma Emilio non è un prete conciliare nel senso che ha scoperto la Chiesa al Concilio. Era conciliare, e noi ne siamo testimoni, ben prima che fosse indetto il Concilio: un evento che egli definisce un'autentica primavera della Chiesa: "La primavera riserva turbolenze, ma produce anche dei fermenti". E di quelle turbolenze e di quei fermenti è pienamente consapevole di far parte: "Faccio parte di quella che è stata definita la generazione dell'Esodo. La generazione che ha lasciato la terra in cui abitava". Si ricerca la Terra Promessa. Il deserto, voluto, meditato, "è una severa scuola di libertà". Il Signore stesso ci spoglia di tante umane sicurezze, educandoci ad una speranza che non sarà delusa.

E' una delle pagine più belle ed autobiografiche di Emilio. Sente il desiderio di tornare a fare il parroco. E' questo il frutto del Concilio per molti sacerdoti, l’evento che li ha fatti interrogare su se stessi, sull'essere sacerdoti. Emilio ed altri preti con lui si sono allora risposti che forse era insufficiente che facessero il sacerdote per gruppi limitati e privilegiati di giovani e di credenti. Ritennero che la dimensione più completa e giusta fosse quella di "fare il pastore" in modo pieno, di una chiesa locale e, quindi, il parroco. Scrive "’sono un servo inutile’. L'unica vera soddisfazione consiste nel poter dire: il Signore si è voluto servire di me. Gli onori e i riconoscimenti umani sono soltanto fumo negli occhi. Ciò che conta è l'amicizia".

Torna il tema dell'Amicizia, costante in tutte le lettere. L'amicizia terrena. Il voler bene. Voleva bene individualmente a tutti noi. E' un tema molto forte e molto umano. Ma non era solo un rapporto amicale e basta. Era un punto particolare di un rapporto generale, dell'amicizia che si deve avere per tutti gli uomini: non si vive da soli, ma si vive con gli altri.

Se guardiamo all'ultimo libretto, quello relativo al Natale del 1999, vediamo che tutti i suoi scritti sono un testamento, compiutamente un testamento. Sono scritti con la costante della vita: "Servo inutile". Annotava nel suo diario che "Emilio vuol dire blando, qualità di poco conto". Ogni momento della vita poteva essere l'ultimo momento e quindi andava speso integralmente, senza risparmiarsi.

Il libretto di Natale 1999 riprende completamente, con parole nuove, i temi della Pasqua 1992 ed è proiettato sul Giubileo, sulla Porta santa, su Cristo. Finisce il secolo che ha avuto un grande evento per la Chiesa e per la Storia, l'evento che lo ha segnato, il Concilio Vaticano II e l'apertura della Porta non è senza significato. La Porta è Cristo. "Sto alla porta e busso". Una sensibilità costante. Il messaggio di salvezza è per tutti: non solo per i cristiani, ma per tutta l'umanità, con particolare sensibilità verso i poveri, verso coloro che "cercano".

Emilio è sacerdote del suo tempo, contro ogni lettura delle Sacre Scritture da trasporre in termini ideologici o sociologici. Emilio crede che tutto ha significato nella persona, nell'evento Cristo. La scrittura delle scritture è Cristo. Il Concilio è il ricordo dell'incarnazione del Verbo, che ha scelto la condizione umana, così provvisoria, debole e precaria. Da qui deriva l'attenzione costante verso la condizione dell'uomo. Cristo è nomade, è il pellegrino che cammina con noi.

Emilio usava riferirsi al presente per piccoli schizzi, con i quali sapeva leggere i "segni dei tempi". Ed ecco il ricordo dei lavori per il Giubileo, non da tutti apprezzati; della speranza di molti, ma da lui non condivisa, di tornare ad una Chiesa trionfante e ad una "fede ai trionfi avvezza". Torna prepotente il pensiero paolino ("la forza di Dio si manifesta pienamente nella nostra debolezza") e torna la frase di Agostino: per machinas transituras Architectus aedificat domum mansuram ("attraverso strutture transitorie raggiungiamo la casa in cui abiteremo con lui per sempre").

Nella lettera di Natale 1995 viene riproposto il tema della fragilità della nostra epoca, segnata dall'individualismo e dalla corsa al successo. Si chiede: "E' ancora possibile l'amicizia in questo nostro mondo?". Non servono amici potenti, ma sinceri. Risponde attraverso una pagina di Enzo Bianchi, che ricorda come Gesù, crocifisso fuori della città santa, fuori da ogni contesto rituale, senza apparenza sacrificale, nella vergogna della nudità, accetta la solidarietà con i peccatori che doveva portare alla comunione, alla riconciliazione tra Dio e gli uomini, tutti gli uomini. E' dunque nella solidarietà con il mondo che i cristiani si santificano. La nostra condizione è difficile, soprattutto nei rapporti dell'amicizia, con questo individualismo, questa corsa al successo che spezza i legami di amicizia, ma non dobbiamo operare fuori dal mondo. Non ha senso la fuga dal mondo. E' necessaria la separazione dalla mondanità e dal peccato, ma non la fuga dagli uomini. Dobbiamo accettare questa condizione, non possiamo rifiutarla. E' strutturale, è condizionata da fatti che ci trascendono. Noi però dobbiamo agire in questa situazione, con la consapevolezza di tutto ciò. Emilio mostra tutta intera la sua indole. E' proprio don Silvano Nistri a ricordare che la libertà è il suo carisma e che "don Emilio ha lo stile di vita del monaco, gli ideali, un certo radicalismo evangelico, il metodo di lavoro, soprattutto la libertà spirituale. Un monaco che ha scelto di vivere in città, fra la gente".

Anche nella lettera di Pasqua del 1993 torna ancora il sapore autobiografico della fragilità, insiste ancora sulla nostra gracilità, sulla "piccioletta barca", ma sull'audacia con cui dobbiamo affrontare il mare. Non abbiamo altro modo. Ed ecco ancora un altro dei caratteri del nostro tempo, insieme all'individualismo e alla corsa al successo: tutto fugge velocemente. Non possiamo non amare il tempo, il nostro tempo. E aggiunge: "beato chi lo vive intensamente e generosamente, gettando l' àncora oltre il velo, nel gorgo profondo di quel mirabil regno ‘che solo amore ha per confine’, dove il Cristo ci ha preceduti come il primo dei risorti".

Ciascun anello è saldato l'uno con l'altro, la vita con la morte. I riferimenti autobiografici sono fortissimi. I momenti storici vanno letti con difficoltà. C'è una tale aderenza al Vangelo che nei suoi scritti sembra che la vita sfugga al tempo.

L'amore trasforma il legno arido della Croce in albero verdeggiante; il seme in spiga colma e matura; la morte, anche la più tragica, in un albero di vita. La morte era un pensiero che l'accompagnava e che lui cercava di spiegare: "Una vita compiuta è come una spiga colma, matura. Quando il grano è maturo, si miete. La mietitura è una festa. E la morte, più che la fine è da considerare il compimento. Riusciremo a convincerci che la nostra vera ricchezza nasce da questa spoliazione e che soltanto l'amore spinto alla follia, com'è quello della croce, è capace di attrarre a sé tutte le cose e di trasformare ogni strumento di morte in albero di vita?".

A Natale del 1993 c'è l'uomo nuovo. Comincia citando Virgilio, che "definisce i liguri ‘durum genus’, gente dura, indurita dall'improba fatica di dominare la roccia e il mare infido". Gli viene in mente l'altro detto: "’gutta cavat lapidem’, l'acqua che persistente scende goccia a goccia riesce a scalfire la pietra. Ma c'è una durezza che nessuna acqua riesce a scalfire, la durezza del cuore. Quanta durezza di cuore han dimostrato tanti uomini di oggi, specialmente quelli che in nome di alti ideali si erano impegnati a servire gli altri e invece si sono prostituiti agli idoli del potere e del denaro, inquinando i rapporti sociali e avvelenando anche l'aria". Pensate alla situazione generale che si viveva nel nostro Paese nel Natale del '93! C'è un riferimento trasparente alla lotta politica. Certo non c'è un'invettiva politica, ma ci sono riferimenti precisi. E aggiunge: "se un tempo ci si era illusi che bastasse cambiare le strutture per avere un mondo nuovo, più giusto ed umano, ora diventa più chiaro che nulla di autenticamente nuovo sorgerà senza l'uomo nuovo con un cuore nuovo". Anche Emilio si era illuso della forza innovativa di certi fermenti, di certi movimenti postconciliari, del '68, ecc. "C'è un netto rifiuto della furbizia gattopardesca, che vorrebbe cambiare qualcosa perché tutto rimanga come prima, il che dimostra che l'uomo vecchio non si rassegna a morire". Ma a Natale, "a Betlemme è nato l'Uomo Nuovo", il Bambino che fa ringiovanire il mondo.

E' la lettera dove traspira di più la lotta politica, la cultura dell'epoca. "Dopo tanto frastuono di parole menzognere è necessaria una pausa di silenzio. Prima di parlare occorre… saper tacere per ascoltare il Verbo che è uscito dal silenzio per insegnare prima a fare e poi a dire". Emilio ricordava spesso che il Vangelo, come dice Pomilio, non è un'opera di devozione e di edificazione, ma la fonte di esperienze alternative. "E' necessario prima fare poi dire". Anche se negli ultimi tempi annotava: "Ho detto la mia prima messa in tempi di angustia e di paura, quando si mangiava un pane stentato e nero... Oggi che il mondo è cresciuto e va crescendo in maniera sbalorditiva la mia offerta è più ricca. Prima credevo più nel fare, adesso credo più nel patire".

"E' finita la stagione delle facili illusioni e delle amare delusioni…C'è ancora speranza in mezzo a noi, perché ci sono in mezzo a noi umili servi del Signore, uomini inviati da Dio per rendere testimonianza alla verità…Hanno scelto di essere poveri per essere liberi". Ecco la scelta di vita di Emilio. Ha scelto di essere povero per essere libero: "…Amano la verità più di se stessi e sono al servizio di tutti senza lasciarsi asservire a nessuno. Sono questi i tuoi amici o Signore, e anche i nostri… O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai miti l'eredità del tuo regno, rendici poveri, liberi ed esultanti, a imitazione del tuo Figlio…".

Torna il tema di Bobbio ("non ho nessuna speranza"), dell'insegnante di religione (Natale '94), del Vangelo ai non credenti. Riaffiora ancora una considerazione sul momento storico: una raffigurazione dell'Impero romano, che sembra quasi una riflessione sull’attuale società mondiale: un mondo non più diviso in due blocchi (Pasqua '94).

Ma vale la pena di tornare al libretto di Natale del 1999 dove è sottolineato un altro carattere forte della civiltà contemporanea, la civiltà della meccanica. Ecco il rapporto tra meccanica e mistica. La necessità che la moderna civiltà della macchina non sia refrattaria agli atteggiamenti mistici.

A Pasqua del 1995 sottolinea che le divisioni che sono tra gli uomini, ma anche nella comunità cristiana, sono il segno della nostra condizione umana, della passione che noi viviamo in questo mondo. La divisione è il contrario dell'amore e dell'amicizia. Noi viviamo in mezzo alle divisioni, dobbiamo viverle, è ineluttabile. Ma queste divisioni dobbiamo viverle con passione. E la passione è legata alla Resurrezione. Non è che si possa pensare alla Resurrezione senza la passione. Se vogliamo arrivare alla resurrezione dobbiamo passare fino in fondo attraverso il mondo, che è un mondo di divisione.

Ripeteva spesso che avrebbe rifatto il prete. Ha orientato generazioni di studenti. Uomo semplice e complesso, di pochi studi accademici, ma di grande cultura, sapere, ed esperienza, era un vero intellettuale. Poteva starsene a Roma a studiare. Ha frequentato i diplomatici. Eppure mai si è lasciato sedurre, da nessuno. Aveva scelto di vivere povero. Gli interessava solo il Vangelo. Non vuole piegare il Vangelo a un messaggio politico. Vuole piegare l'uomo al Vangelo. Ricorda la predica cristiano-araba magistralmente tradotta e commentata da Maria Gallo (Omelia Arabo-cristiana dell'VIII secolo, Roma, Città Nuova Editrice, 1994, p.8), che gli fece dono del bel volume che aveva curato: "Gli Apostoli andarono per il mondo poveri, deboli, senza beni di fortuna, senza potere in questo mondo, senza ricchezze da usare quali strumenti di corruzione, senza scienza, senza parentele di cui potersi vantare presso chiunque. Non combatterono contro nessuno, non forzarono gli uomini, invitarono il popolo alla giustizia".

Cosa ci lascia Emilio? Si domanda don Silvano Nistri: "Intanto ci lascia questa testimonianza di fedeltà alla sua vocazione. C'è un mistero del prete che è sempre mistero di uno sguardo di amore particolare da parte di Dio. Non si è preti da sé, né per sé. ‘Noi non predichiamo noi stessi ma Cristo Gesù come Signore. Siamo i vostri servitori per amore di Gesù.’

"Ci lascia un'immagine di Chiesa, ma di una chiesa povera, che ‘non nasconde la sua infermità e umana debolezza’, convinta che virtus in infirmitate perficitur, soprattutto una Chiesa che si lascia portare dal vento dello Spirito.

"E ci dà un appuntamento.‘Ringrazio il Signore del dono di tanti amici, come della mia più vera ricchezza. È con tutti loro che io spero un giorno di trovarmi a tavola nel Regno. Allora potremo bere insieme il vino nuovo, come il Signore ha promesso nell'ultima cena, quando istituì il banchetto nuziale del suo amore, ordinando di fare questo in sua memoria e in attesa della sua venuta. Che disse allora consegnando il calice nelle mani dei suoi discepoli? In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio (Mc.14,25). È un appuntamento al quale, certo, nessuno vorrà mancare’."

 

Torna alla pagina principale